eSports – i videogiochi alle Olimpiadi? Alcune riflessioni

eSports – i videogiochi alle Olimpiadi? Alcune riflessioni

Gli eSports andranno alle Olimpiadi? A quanto pare il Comitato Olimpico ci sta pensando, e ne parla in un suo recente comunicato. Come prevedibile, una notizia del genere ha scatenato una montagna di reazioni anche da commentatori di un certo livello, molti dei quali come al solito parlano di argomenti che non conoscono affatto.

Credo sia quindi il caso di fare qualche riflessione a riguardo, e magari già che ci siamo, fornire qualche dato a chi quando sente parlare di videogiochi alle Olimpiadi, pensa ai figli seduti dietro in macchina con il Gameboy.

Invece, sarà il caso di intenderci, stiamo parlando di roba così:

eSports
finale mondiale del campionato di DOTA2 “The International” – KeyArena, Seattle (USA)

Wikipedia riporta una stima di 226 milioni (ripetilo piano: duecento ventisei milioni) di spettatori di eSports durante il 2015. Nel 2013 la stima era di 71.5 milioni, quindi se l’andamento sarà confermato, i dati 2016 e 2017 si preannunciano clamorosi.

Giusto per fare un confronto, gli spettatori del SuperBowl di football americano degli ultimi 5 anni sono sempre attestati intorno ai cento milioni circa, per la precisione 111.3 milioni per il 2017 secondo la CCN. Questo vuol dire che gli eSports li hanno ampiamente doppiati già due anni fa, e puntano al podio del singolo evento sportivo più seguito al mondo, la finale del mondiali di calcio (nel 2014, più di 560 milioni di spettatori da casa). Diverso ovviamente il discorso per le Olimpiadi estive, che fanno numeri totali molto più alti (intorno ai 3 miliardi di spettatori) ma durano settimane… e in ogni caso, gli ultimi giochi del 2016 hanno visto il dato calare dopo due edizioni in crescita. Comunque sia, gli eSports sono un fenomeno di massa a livello mondiale, che attira numeri ingenti di pubblico. Qualcuno farebbe meglio a segnarselo.

Permettetemi poi una nota “di colore”: negli eSports esistono sempre più spesso squadre europee, con partecipanti da vari stati UE che gareggiano insieme – una cosa che nelle competizioni degli sport “ufficiali” per ora è stata sempre e solo un sogno di pochi (o un incubo per tanti 😀 ). Ad esempio la finale del torneo mondiale The International del gioco DOTA 2 è stata vinta nel 2017 dalla squadra europea Team Liquid, nata nel 2000 intorno al videogioco StarCraft 2. Ci hanno fatto anche un bel documentario in due puntate:

La squadra è europea, con base in Olanda, ma tra i suoi azionisti troviamo nomi come Magic Johnson (si, proprio lui!) e il comproprietario della squadra di football Golden State Warriors, mentre tra gli sponsor ufficiali si leggono nomi come HTC e Alienware, il più importante produttore di computer per gaming. Per la cronaca il premio per la vittoria 2017 è stato di più di dieci milioni di dollari. Altra cosetta da segnarsi: gli eSports muovono interessi economici cospicui a livello mondiale, paragonabili almeno a quelli della boxe (sport olimpico dal 1904).

Già per queste due piccole motivazioni (pubblico e soldi!) tutti potrebbero capire almeno in parte le motivazioni dell’uscita del Comitato Olimpico. Ma ovviamente c’è di più, e qui le cose diventano interessanti.

Gli esports sono soprattutto un formidabile strumento per entrare in contatto con le generazioni più giovani, che ne costituiscono il pubblico e anche gli atleti. Nei paesi asiatici l’incidenza Degli esports sulla popolazione giovanile ha numeri clamorosi, ma ormai anche in Europa il fenomeno è esploso da un bel po’ – tanto che incredibilmente anche in Italia qualcuno comincia ad accorgersene.

In paesi che per tanti motivi, a cominciare da quello climatico e geografico, hanno una tradizione di lavoro con i giovani un po’ diversa dalla nostra, come ad esempio la Finlandia, gli esports sono già da qualche anno uno degli ingredienti stabili delle attività che vari centri giovani sparsi nella nazione offrono ai loro frequentatori, mentre qui da noi se va bene c’è il tavolo da ping pong o il calcetto.

Ne consegue che gli enti deputati alla formazione degli animatori giovanili, che in paesi come la Finlandia esistono eccome (sono i miei amici e colleghi di Verke!) ad esempio pubblicano guide pratiche su come costruire dei lan-party o su come fare esports nel proprio centro giovani.

Per fare un paragone comprensibile (che tra l’altro dice anche molto sulla condizione dei servizi per i giovani in Italia…) sarebbe come se guide del genere venissero pubblicate dalla nostra Federazione degli Oratori, che poi ne promuovesse l’utilizzo in tutti gli oratori italiani. Sicuro.

Quando mi capita di parlare con youth workers di Paesi in cui questo fenomeno è già diffuso, in effetti uno degli aspetti che subito viene a galla è come riuscire a tenere separato il semplice divertimento dilettantistico dalla forte componente agonistica e soprattutto dalla forte pressione, esercitata dalla grande visibilità e dai grandi guadagni che circolano nell’ambiente professionistico.

A ben pensarci, sono gli stessi interrogativi che allenatori di calcio o di basket alle prese con ragazzini di media bravura si devono porre molto spesso. Insieme a questi, chi conosce un po’ il mondo degli esports professionistici sa che sottovoce si parla anche di doping, inteso come assunzione di sostanze che possano migliorare le prestazioni necessarie a questo tipo di discipline: quindi farmaci o prodotti che offrono miglior resistenza alla fatica, miglior capacità di concentrazione e di rapidità di riflessi eccetera eccetera. Anche in questo caso, c’è chi ha fatto di questo argomento un punto di contatto con il mondo giovanile, per poi arrivare a parlare di doping in senso più ampio o di abuso di sostanze.

Infine il mondo degli esports è un mondo praticamente solo al maschile che porta al massimo grado molti dei problemi relazionali presenti nelle tante comunità online di (maschi) videogiocatori: discriminazioni sessuali e razziali, hate speech e via rovistando nelle fognature.

Basta guardare l’accoglienza che sta ricevendo la nuova versione dell’immortale gioco Castle Wolfenstein, Wolfenstein II in cui si combattono i nazisti  e il KKK in un’America parallela dove Hitler ha vinto la guerra mondiale (come in The Man in the High Castle), per rendersi conto di come siamo messi male. Ma del resto per rendersi conto di come siamo messi male in quanto a dilagare di nazismo basta anche semplicemente dare un’occhiata alle scritte e agli adesivi che si incontrano sui muri e sui pali della luce di una qualunque città, a cominciare dalla mia. Tra l’altro, menzione d’onore all’autore del gioco e a Bethesda, la società che lo pubblica; entrambi sembrano avere (ancora) le idee chiare su come si trattano i nazisti:

Su tematiche come queste sono già diverse le organizzazioni attive, tra cui ricordo sempre gli amici tedeschi di Game Over Hate. Insomma secondo me, gli esports dovrebbero far parte sia del divertimento e del tempo libero giovanile, sia delle attenzioni di chi in questo tempo libero e tramite questo divertimento prova a fare educazione in modi più efficaci e meno paludati di quelli scolastici.

È interessante a questo punto sottolineare che il comunicato del Comitato Olimpico fa proprio riferimento a tutti questi temi: rispetto dei valori olimpici di pace e fratellanza in contrasto alla discriminazione razziale e di genere, creazione di organismi di vigilanza e quindi Federazioni nazionali o internazionali di professionisti, che si occupino anche di prevenire e controllare l’uso del doping nelle competizioni, sarebbero secondo me innovazioni necessarie in un mondo che sta crescendo vertiginosamente ma come spesso accade alle cose nate online, senza alcun controllo o attenzione dall’esterno.

Di certo dedicare al fenomeno delle competizioni di squadra nei videogames anche solo un decimo dell’attenzione e delle risorse che si dedicano ai settori giovanili degli sport tradizionali, potrebbe portare un impatto educativo molto interessante su un argomento ancora circondato da un sacco di ignoranza e leggende, a partire dalla famigerata sindrome di dipendenza dai videogiochi, già inserita nella bozza della prossima edizione del DSM (il manuale internazionale che raccoglie e classifica i disturbi e le patologie mentali) e la cui stessa esistenza è però appena stata confutata da uno studio dell’università  di Cardiff.

Come al solito staremo a vedere, e intanto raccogliamo i vostri pareri.

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