Gaza, la Palestina e i videogiochi.

Dopo mesi di timidezze e paure, Gaza ha riempito le piazze italiane come non accadeva da tempo. In tutte le città, nelle scuole, nelle case di riposo: studenti che occupano, lavoratori che protestano, cittadini che chiedono – con voce chiara – giustizia per il popolo palestinese, e bloccano tutto in risposta all’attacco della marina israeliana alla Global Sumud Flottiglia. È una mobilitazione ampia, multiforme, intergenerazionale, per una causa che supportiamo da anni.
E in mezzo a tutto questo, qualcuno potrebbe chiedersi: che c’entrano i videogiochi?

gaza palestina e videogiochi

La risposta, oggi più che mai, è: c’entrano eccome.

Perché i videogiochi, come ogni linguaggio culturale, raccontano il mondo. E da tempo – anche se pochi se ne sono accorti – alcuni autori usano il linguaggio del videogioco per raccontare la Palestina. Per dare voce a chi spesso resta invisibile nei telegiornali. Per farci sentire cosa significa vivere sotto occupazione, sotto assedio, tra i droni e i blackout, tra le scelte impossibili.

Non c’è contraddittorio davanti al genocidio

È tempo, in mezzo a questa ondata di consapevolezza e partecipazione, di fare una piccola rassegna di quanto il mondo dei videogiochi ha già detto (e fatto) su Gaza, sulla Palestina, sull’ingiustizia che subisce.

Attenzione, disclaimer: non aspettatevi giochi neutrali, o politically correct, e nessuna par condicio: come ha fatto presente qualcuno di recente, non c’è contraddittorio che tenga davanti al genocidio. Non c’è ignoranza che tenga, al tempo di internet, su una storia che va avanti da più di 50 anni.

Di crisi a Gaza ce ne sono state tante, in tanti decenni; di una è stato testimone Vittorio Arrigoni sul suo blog Guerrilla Radio – e io voglio sempre ricordare questo mio quasi-coetaneo e quasi-vicino di casa eroico; già prima, l’Italia si occupava di Palestina e proprio in questo periodo stanno tornando a girare sui social estratti video di discorsi di Craxi e di Berlinguer, che negli anni 80 riconoscevano la validità della causa palestinese, pur prendendo le distanze dalle sue forme più estreme di lotta armata. Qualcuno qualche mese fa è addirittura andato a riprendere una dichiarazione di Andreotti nel 2006, nei suoi ultimi anni di senatore a vita: “io credo che ciascuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento, e da cinquant’anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire, sarebbe un terrorista“.

Per questo motivo capiamoci subito: i giochi che elenchiamo hanno una prospettiva, un punto di vista “di parte”. Dalla parte della popolazione palestinese, anche quando questo può disturbare, può costringerti a giocare da un punto di vista che non sarebbe il tuo. Anche questa esperienza, probabilmente, è una condizione che tanti in quella terra si trovano a vivere – e che con i videogiochi possiamo avvicinare anche noi.

Alcuni giochi che raccontano la Palestina

Global Conflicts: Palestine (2007)

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Questo gioco per Mac e Windows si gioca dal punto di vista di un giornalista freelance a Gerusalemme, parlando con civili, militari, attivisti, cercando di capire e raccontare. Un gioco vecchio (e oggi un po’ datato graficamente), ma interessante per l’approccio: ti mette nel mezzo, ti obbliga ad ascoltare.
Consigliato a: chi vuole capire il peso della narrazione nei conflitti.

Peacemaker (2007)

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Un gioco di simulazione per mobile e desktop, dove si può governare Israele o Palestina, cercando di raggiungere una pace fragile. Interessante dal punto di vista strategico, ma criticabile per come mette “sullo stesso piano” due realtà profondamente asimmetriche.
Consigliato a: chi vuole riflettere sulla complessità, ma anche sulle semplificazioni.

Liyla and the Shadows of War (2016

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Un piccolo gioco mobile per iOS e Android, sviluppato da un autore palestinese, che racconta l’esperienza di una famiglia durante i bombardamenti su Gaza. Non è un FPS, non è un gestionale: è una breve corsa verso la salvezza, tra le macerie. Non si spara. Si fugge, si teme, si perde. E si ascolta il silenzio. Bandito dall’App Store di Apple, oggetto di una campagna internazionale di solidarietà, è un esempio di videogioco che contribuisce ad una causa in modo originale e innovativo.
Consigliato a: chi vuole sentire l’angoscia dell’assedio, non solo leggerla.

Fursan al-Aqsa (2022)

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Ed eccoci ad un titolo controverso: uno shooter in prima persona dove si gioca come combattente palestinese contro soldati israeliani. Ha sollevato critiche forti (per violenza e polarizzazione), ma è anche uno dei pochi tentativi di ribaltare la narrativa dominante. Il sito contesta fortemente le accuse di promuovere violenza e terrorismo, e paragona la violenza che racconta, con quella raccontata da giochi come Call of Duty.
Consigliato a: chi vuole confrontarsi con l’urgenza e il limite della rabbia.

Toofan Al-Aqsa (2024)

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Qui siamo direttamente alla provocazione: questo gioco si intitola come l’operazione di Hamas del 7 ottobre, che ha portato a molte centinaia di morti e alla cattura di decine e decine di ostaggi. Sparatutto molto diretto, partigiano, senza tanti filtri. Un altro segnale che il mondo dei videogiochi non è affatto neutrale – e anche in questo caso però, il paragone con i giochi che raffigurano altri scenari di combattimento può far riflettere su quel che proiettano anche i videogiochi “che vanno per la maggiore”.
Consigliato a: chi vuole vedere come anche il linguaggio videoludico può diventare campo di battaglia.

Videogiochi come spazio politico: il libro di Marijam Did

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Tutto questo discorso si inserisce perfettamente nel lavoro della giornalista e game designer Marijam Did, che nel suo libro Everything to Play For. How Videogames are Changing the World ( qui la recensione del sempre ottimo Matteo Lupetti) spiega come i giochi possano formare coscienzatrasmettere valorimodellare il pensiero critico.

I videogiochi, scrive Did, non sono più solo “evasione”. Sono linguaggi complessi, dove si possono costruire (e decostruire) mondi. Dove si può prendere posizione, raccontare il reale, prendere per mano il giocatore e portarlo in luoghi che altrimenti resterebbero lontani.

Non è un caso se oggi alcuni studi indie scelgono di raccontare proprio la Palestina. E non è un caso se molte piattaforme (come Steam, o gli store mobile) a volte censurano questi contenuti.
Perché raccontare la Palestina – davvero – è un atto politico. Già Layla and the shadows of war alla sua uscita come abbiamo segnalato era stato rifiutato dalla sezione Giochi dell’App Store di Apple, dove è poi stato inserito grazie alle proteste della comunità. Nel frattempo, sulla piattaforma di giochi indipendenti Itch, la vendita di un bundle di beneficenza dedicato ad un’altra (precedente) fase di emergenza a Gaza ha avuto grande successo e impatto.

Giocare è anche un atto etico

Oggi, in questi giorni di mobilitazione forte e chiara in Italia, vale la pena chiedersi: che tipo di giocatori vogliamo essere? Che giochi vogliamo giocare, proporre, usare anche in contesti di aggregazione e di educazione? Vogliamo chiudere la console e dimenticare? O vogliamo usare anche il gioco per capire, per sentire, per ascoltare voci che altri zittiscono?

Non è una scelta facile. Ma è necessaria.

E vale anche l’inverso: chi oggi scende in piazza, chi firma petizioni, chi occupa le scuole e le università – può trovare nei videogiochi un altro strumento di racconto e resistenza. Perché si può “giocare per la Palestina”, come si può leggere, scrivere, cantare o disegnare per la Palestina.

Conclusione

Gioca. Ma gioca con coscienza.
Scopri questi titoli. Falli girare. Parlane. Usali per discutere, per riflettere, per spiegare.

E poi scendi in piazza.
Perché la Palestina non ha bisogno solo di clic o di like. Ha bisogno di voci. Di corpi. Di presenza. I mondi che costruiamo nei videogiochi non valgono nulla se non sappiamo difendere anche quello reale.