A febbraio 2026 sarò in Finlandia per tenere un corso di formazione rivolto ad educatori e insegnanti, intitolato Videogiochi come strumenti di inclusione. Del corso vorrei riuscire a parlare un po’ dopo che l’avrò svolto, ma dell’argomento secondo me è ora di parlare adesso.

Intanto, l’inclusione. Non lasciare indietro nessuno, permettere che tutti abbiano le stesse opportunità in partenza, prima di parlare di merito e altre simili roboanti concetti, quando chiunque abbia gli occhi per guardare, vede bene che i punti di partenza delle persone (anche parlando solo del nostro sistema di istruzione) sono talmente diversi, che per qualcuno è semplicemente impensabile riuscire ad arrivare tra i primi, nonostante corra più veloce degli altri. Ma poi, chi l’ha detto che deve per forza sempre esserci una corsa?
Non si tratta quindi soltanto di dispositivi ed ausili, per permettere a persone con qualche disabilità di superarla o almeno limitarne l’impatto. Per intenderci, videogiochi e inclusione non vuol dire solo controller speciali per chi fa fatica ad usare quelli standard. Vuol dire andare alla base del problema che pochi hanno il coraggio di guardare in faccia davvero: per includere bisogna saper progettare le esperienze in modo diverso dallo standard di oggi, e soprattutto saperle riprogettare ed adattare continuamente ai bisogni che incontriamo o che ci vengono portati.
Parlare di videogiochi e inclusione vuol dire mettere il dito in una piaga parecchio fastidiosa. Perchè vuol dire rimestare in quel torbido da cui stanno uscendo le peggiori schifezze del mondo contemporaneo, da almeno un decennio.
E come sempre, se scavi un po’ trovi che le cose incominciano da prima. Dal 2014 del #gamergate per esempio, ossia dal momento in cui l’estrema destra statunitense e il mondo dei gamers si sono presi a braccetto. Nella sottovalutazione globale (e sicuramente italiana…) della cultura dei videogiochi, si è consumato l’arruolamento di schiere di giovani maschi bianchi in un “estremismo impacciato” che permette allo stessa persona di inneggiare allo sterminio di una intera categoria umana, o magari di provare ad innescarlo, e di essere un timido introverso che ha difficoltà a costruire relazioni umane significative. La difficoltà a provare empatia, sfruttata come meccanismo di cooptazione nell’estremismo.
Non vorrei adesso parlare di questo, anche se parlarne in modo approfondito è sempre più urgente (magari ci sarà un post nella sezione internazionale del blog, in inglese) – vorrei parlare di videogiochi e inclusione e anzi di videogiochi come strumento di inclusione, proprio perchè i tanto vituperati “giochini” hanno già dimostrato e continuano di dimostrare di poter essere anche un potente antidoto ai mali del nuovo secolo, proprio attraverso l’attivazione dell’empatia, che sono capaci di produrre.
Questo blog è pieno di articoli, sia in italiano che in inglese, dove da anni si tratta questo argomento (ad esempio qui, o qui).
Per molti è spesso più facile essere empatici nei confronti dei “più sfortunati” – che volentieri ti darebbero un pugno in faccia, son sicuro, quando li descrivi con questa etichetta: chi è nato con una disabilità, chi ha perso la famiglia, chi sopravvive ad una tragedia o ad una guerra…
Poi però cominciano le differenziazioni: possiamo essere empatici coi migranti che “ci invadono”? e con chi testimonia l’esistenza pratica e concreta di altri modi di essere coppia, famiglia, persona, oltre a quelli che abbiamo in testa noi, e che per tanti costituiscono le lenti attraverso cui guardare il mondo? E se magari questi, per di più, non stanno buoni ad aspettare che noi li aiutiamo a trovare il loro posto nel mondo, ma osano alzare la voce e sottolineare la loro condizione di difficoltà, mettercela davanti agli occhi?

Ad esempio i pugni guantati di nero di Smith e Carlos sul podio olimpico del 1968 hanno portato le rivendicazioni dei cittadini afroamericani, e con esse l’esistenza stessa delle comunità afroamericane negli Stati Uniti, sotto gli occhi del mondo, rappresentando quelle istanze, quell’esistenza, davanti all’occhio globale dei media. E non posso fare a meno di ricordare che rappresentare è un concetto chiave del rap più consapevole, che fin dall’inizio della sua storia si dà questo obiettivo: far vedere che ci siamo anche noi.
Su questo come siamo messi nei videogiochi? Ha senso parlare di videogiochi e inclusione anche da questo punto di vista?
Beh pensate quando, all’inizio di un gioco, si deve scegliere il proprio personaggio. Quali sono le scelte a disposizione? solo aitanti maschi bianchi pieni di muscoli? ci sono altre etnie? magari anche non umane? ci sono generi diversi tra cui scegliere? magari anche in modo non binario? Già su questa domanda, da anni ci sono in corso campagne scatenate di odio e insulti a tutti quelli che in un modo o nell’altro “osano” mettere in discussione il fatto che i videogiochi possano non essere solo roba per maschi bianchi eterosessuali.

Addirittura l’estrema destra statunitense si è inventata (tanto per cambiare) l’ennesimo nemico che non esiste contro cui dichiarare una crociata, ossia la ideologia woke, che a suo dire essendosi radicata nei media e nelle società di produzione di film e videogiochi, a partire dal conglomerato Disney, costringe gli spettatori a venire in contatto con punti di vista diversi , che addirittura potrebbero – non sia mai! – avere effetti collaterali per loro negativi, come il fatto di mettere in discussione la propria visione del mondo come unica valida.
Restando sui videogiochi, devo dire invece che a me piace proprio, l’idea di una esperienza che mi costringa ad assumere un punto di vista sul mondo diverso dal mio. Quando ho giocato i primi due Life is strange, nei panni di una ragazzina adolescente di periferia che deve affrontare bullismo e dubbi sulla propria identità di genere, e poi di un ragazzino orfano e migrante inseguito dalla polizia americana, che tira a campare tra vita da homeless e ingresso nei circuiti illegali della produzione di sostanze, è stato molto forte l’apprendimento che ne ho tirato fuori, su come certe categorie di persone diverse da me vivono la loro vita.
Allo stesso modo, giocare e far giocare Bury me my love è stato un potente strumento per capire aspetti della vicenda delle persone migranti, senza fare prediche ma semplicemente mettendo chi gioca davanti a scelte semplici e insieme cruciali.
E’ evidente che i videogiochi di questo tipo sono (per ora) una minoranza, o comunque non hanno la visibilità e l’accessibilità che si meriterebbero. Come sempre quando si parla di tecnologia, il convitato di pietra che è l’industria hi-tech, ossia gli sviluppatori e le persone che decidono come devono essere o non essere gli strumenti tecnologici che usiamo, brilla per la sua assenza all’interno di conversazioni su queste tematiche – salvo poi scaricare sulle istituzioni responsabilità e ruoli di (auto-)controllo che non vuole assumersi.
Come possiamo ancora meglio inquadrare il discorso su videogiochi e inclusione? ci sono esperienze significative da condividere? Io continuo a cercare, se voi avete suggerimenti, i commenti sono aperti.